
Come i petali di una rosa: la storia del rosario
Il mese di maggio è quello che più comunemente accostiamo a Maria; ci siamo mai chiesti quando nasce la tradizione cristiana della recita del rosario? Proviamo allora a indagare tra le pieghe del passato, perché possiamo coglierne a pieno anche il suo significato.
La parola ‘rosario’ deriva dal latino rosarium, cioè roseto, che nel medioevo assunse un significato sacro per indicare un insieme di preghiere, in quanto metafora di una corona di rose offerte a qualcuno. Non è un caso che l’oggetto che oggi identifichiamo con il rosario è detto anche “corona”.
Bisogna sapere che fin dai primi tempi della Chiesa è invalsa la tradizione di scandire la giornata (le ore) con la preghiera dei 150 salmi (il salterio). Nasce così l’ufficio delle ore, che attraverso diversi adattamenti e variazioni nei secoli preghiamo ancora oggi; è il concilio Vaticano II, che tuttavia lo ha riconsegnato e raccomandato a tutti i fedeli compresi i laici, mentre prima era riservato ai chierici e ai religiosi.
Bisogna però immaginare che nell’altomedioevo non tutti i monaci erano in grado di leggere e dunque pregare le ore; perciò chi non sapeva leggere sostituiva i 150 salmi con la recita di 150 Pater noster. Anche Francesco d’Assisi nella sua Regola, approvata dal papa nel 1223, al cap. 3 scrive:
I laici dicano il Credo in Dio e ventiquattro Pater noster con il Gloria al Padre per il mattutino, cinque per le lodi, per l’ora di prima il Credo in Dio e sette Pater noster, con il Gloria al Padre; per terza, sesta e nona, per ciascuna di esse, sette Pater noster; per il vespro dodici, per compieta il Credo in Dio e sette Pater noster con il Gloria al Padre;
Possiamo notare che al tempo di san Francesco ancora non si fa menzione della preghiera dell’Ave Maria. In effetti, l’Ave Maria, nella forma che noi oggi conosciamo, si è andata fissando solo nel XIV secolo. Essa, infatti, è composta da una prima parte evangelica: riprende il versetto del saluto dell’angelo (Lc 1,28) durante l’annunciazione a Maria e quello della benedizione di Elisabetta (Lc 1,42) durante la visitazione. L’accostamento di questi due versetti, detti salutatio angelica, sono un’antifona mariana usata nella liturgia già nel IV secolo. Solo nella seconda metà del Trecento si aggiunsero il nome di Gesù (il frutto del tuo seno Gesù) e la seconda parte della preghiera che inizia con “Santa Maria”, come rielaborazione di altre antifone mariane, in particolare quella che inizia Sub tuum praesidium:
Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta.
Molti rivendicano la paternità di questa preghiera. Pare che essa sia stata composta in ambito certosino e poi diffusa grazie agli ordini mendicanti: san Bernardino da Siena († 1444), ad esempio, prima di iniziare a predicare faceva recitare ai suoi ascoltatori l’Ave Maria. Tuttavia, il fatto che essa non sia di nessuno ma di tutti esprime bene il senso profondo della preghiera cristiana: una rosa è un insieme di petali e ciascuno deve fare la sua parte per manifestare la bellezza di quel fiore. Quindi, come era successo per i 150 Pater noster, iniziò l’uso di ripetere anche l’Ave Maria 150 volte, in sostituzione del salterio con i suoi 150 salmi. Fu così che qualunque cristiano, anche laico, poté portare con la sua voce una corona di rose fatta di Ave da deporre ai piedi della Vergine Madre, che intercede per noi presso il Padre e nel contempo innalzare un grido che non è solo suo, ma di tutta la Chiesa.
Filippo e Anna